Qui si parla di 45 anni fa, il torrente Turriga che attraversa il nostro paese e divide in due le sponde (dei rossi e dei bianchi) a detta dei “vècì”, paesani implicati in discussioni e movimenti politici di allora, sempre comunque in buona e sarcastica armonia, de qua feste dell’Unità, par de là tutte le altre. Ma a parte questo, per noi “tosàt” de allora la Tùriga, a quel tempo sempre bella gonfia d’acqua, era uno stimolo per i nostri giochi preferiti. Si adattava ad ogni nostro improvvisato gioco, d’estate si facevano i “bojòi”, delle vere piscine con tanto di trampolino, tant’era alta l’acqua, d’inverno invece diventava una pista di ghiaccio e noi tutti armati de bàchèt ci sfidavamo a hochej, non uno di noi aveva mai le ginocchia senza bròie. Noi lo conoscevamo molto bene nel tratto che andava dalle famose Volpère e fino alla sua morte, sul Piave, sotto Rivamaor, ogni bojòn, ogni ansa, ogni passaggio. In primavera nelle isolette che formava dalle sue deviazioni ci costruivamo le capanne, con rami rigogliosi di fresche foglie, per poi rifugiarsi a giocare o a nasconderci da quei che se ghe avea robà le pànoie par rostirsele, o da chi poi,… no se sa. Mi ricordo che era talmente voluminosa d’acqua, che ci vivevano moltissime specie di pesci, cosi era anche meta preferita di pescatori, ma noi li anticipavamo, armati di rudimentali “schirèì” fatti con sacchi di juta recuperati in qualche discarica abusiva e un bastone a forcella, il tutto messo assieme con del filo di ferro si immergeva sotto la “repà” e gli altri con delle stanghe rumavano lì vicino, il bottino ittico era sempre assicurato. La Toriga (così la chiamavamo, )offriva per gli appassionati di crostacei dei ruspanti “gàmbri”, de nòt con lampade a carburo si riempivano le bisacce. I professionisti e i più coraggiosi si cimentavano nella pesca a mani nude, e così recuperavano anche qualche “bisàtà”. La pesca più facile era quella di seccare un fosso, con una deviazione in loco, fatta a mano trasportando sàs e rèpe, raccogliendo poi rimasto all’asciutto, il frutto della fatica. I più tecnici usavano un tipo di pesca assai pericolosa, si trattava della pesca con la corrente, il difficile era procurarsi la materia prima “al fil”, dopo era un gioco da ragazzi. Si pensi che percorrendo un tratto di torrente spostando i sassi a mano, si poteva recuperare un piatto di frittura mista di “pesucole e màrsòi”.
Naturalmente per questi tipi di pesca non era necessaria la licenza. Insomma… al Toriga no ghe mànchea proprio gnènt. Chi si ricorda le nostre mamme, che dopo na bèla liscia, andavano al torrente a risciacquare, (schèna curvàdà sul làvador) e guanti no ghe n’èra, e cosi l’acqua si portava via na parte del pì bòn profumo de genuino “zendro” e sàon de Marsiglia. L’acqua incanalata serviva anche per un modesto allevamento di castori nelle vicinanze della fattoria dei Piccin, qualche anno prima, perché non ho ricordi di averli mai visti. I mulini della “Zangola” anche, erano visitati dall’acqua del Toriga, ora ridotti ad un cumulo di macerie. Non tanto tempo fa, ho voluto di nuovo ripercorrere più volte questo tratto di torrente, e con molta malinconia e tristezza ho constatato la misera fine di tutto questo, neanche più una “fregagna”… La colpa sàràla tuta dell’òn?… Oppure sarà il percorso naturale della vita…bhòòòò.
(Pavei E.)